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Bookmark on è una rubrica ideata da me allo scopo di condividere con voi, ad ogni appuntamento, un piccolo estratto che mi ha particolarmente colpito, tratto da uno dei libri che ho in lettura o da un romanzo che ho già letto, così da stuzzicare la vostra curiosità.
Buongiorno lettori, come state? Io non mi lamento per niente! Di recente ho trovato il tempo per riprendere a scrivere e sono davvero contenta del modo in cui mi fa sentire raccontare delle storie. Quando mi siedo di fronte alla tastiera e inizio, vorrei non dover smettere mai!
Oggi per tenervi di compagnia ho pensato di condividere con voi un estratto da L'inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender, libro che dovrei leggere a breve per una delle sfide di lettura a cui sto partecipando.
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torta al limone
Aimee Bender
Editore Minumum Fax ● Pagine 332
Cartonato 16,50 € ● Brossura N/D ● Ebook 9,99 €
Cartonato 16,50 € ● Brossura N/D ● Ebook 9,99 €
Trama:Alla vigilia del suo nono compleanno, la timida Rose Edelstein scopre improvvisamente di avere uno strano dono: ogni volta che mangia qualcosa, il sapore che sente è quello delle emozioni provate da chi l'ha preparato, mentre lo preparava. I dolci della pasticceria dietro casa hanno un retrogusto di rabbia, il cibo della mensa scolastica sa di noia e frustrazione; ma il peggio è che le torte preparate da sua madre, una donna allegra ed energica, acquistano prima un terrificante sapore di angoscia e disperazione, e poi di senso di colpa. Rose si troverà così costretta a confrontarsi con la vita segreta della sua famiglia apparentemente normale, e con il passare degli anni scoprirà che anche il padre e il fratello - e forse, in fondo, ciascuno di noi - hanno doni misteriosi con cui affrontare il mondo. Mescolando il realismo psicologico e la fiaba, la scrittura sensuale di Aimeé Bender torna a regalarci una storia appassionante sulle sfide che ogni giorno ci pone il rapporto con le persone che amiamo.
Questo romanzo è uscito nelle nostre librerie parecchi anni fa. Da quando ci ho posato per la prima volta gli occhi è passato un sacco di tempo in realtà. Ultimamente ha ripreso a stuzzicare la mia curiosità e, nonostante le recensioni contraddittorie che ho letto online, ho deciso di dargli una possibilità.
Il brano che vi propongo è tratto dal secondo capitolo e mostra la scena in cui la protagonista, sperimenta per la prima volta questa sua bizzarra capacità di sentire le emozioni di chi ha preparato il cibo che mangia. Buona lettura!
La mia torta di compleanno costituiva il suo progetto più recente, perché non era fatta con un preparato commerciale ma invece con le materie prime – la farina, il bicarbonato, e al limone perché a otto anni avevo espresso quel desiderio; avevo sviluppato una forte predilezione per l’agro. Avevamo sfogliato insieme diversi libri di cucina per trovare la ricetta perfetta, e il profumo in cucina era piacevole da stordire. A dirla tutta: il pezzetto che avevo mangiato era squisito. Leggerezza dell’impasto al limone cotto al forno, avviluppato da freschi riccioli di zucchero scuro scuro.
Ma il giorno fuori andava rabbuiandosi, e mentre finivo quel primo assaggio, mentre quella prima impressione svaniva, mi sentii dentro un impercettibile mutamento, una reazione inaspettata. Come se un sensore, fino ad allora sepolto in profondità dentro di me, allargasse il suo raggio d’azione e cominciasse a scrutare tutt’attorno, allertando la mia bocca a qualcosa di nuovo. Perché la bontà degli ingredienti – la cioccolata sopraffina, i limoni freschissimi – sembrava una coltre sopra qualcosa di più grande e di più oscuro, e il sapore di quello che c’era sotto cominciava ad affiorare nel boccone. Certo, riuscivo ad assaporare la cioccolata, ma a folate e di traccia in traccia, in un dispiegarsi o in un aprirsi, sembrava che la mia bocca si stesse anche riempiendo con il sapore della piccolezza, la sensazione del rattrappirsi, dell’inquietudine, assaporando una distanza che non so come sapevo collegata a mia madre, come se sentissi un sapore pregno dei suoi pensieri, una spirale, come se quasi potessi provare il sapore della tensione della sua mascella che le aveva provocato il mal di testa, il che significava che aveva dovuto prendere un certo numero di aspirine, una riga punteggiata di aspirine messe in fila sul comodino, come puntini di sospensione dopo la sua frase: vado a buttarmi sul letto per un po’... Non che il sapore fosse cattivo, non proprio, ma c’era una specie di mancanza di completezza nei diversi gusti che gli dava un’impressione di vuoto, proprio come se il limone e la cioccolata racchiudessero una cavità. Le abili mani di mia madre avevano fatto il dolce, e la sua mente era stata in grado di equilibrare gli ingredienti, ma lei lì dentro non c’era. Mi fece talmente tanta paura che estrassi un coltello da un cassetto e tagliai una grossa fetta, rovinando la forma circolare, perché dovevo ricontrollare immediatamente, e la misi su un piatto con i fiori rosa e presi un tovagliolo dal cassetto dei tovaglioli. Il cuore mi batteva forte. Eddie Oakley venne ridotto ai minimi termini. Speravo di essermi immaginata tutto – forse era un limone andato a male? o dello zucchero vecchio? – anche se sapevo bene, già nel momento in cui lo pensavo, che il sapore che avevo sentito non aveva niente a che fare con gli ingredienti – e accesi la luce e mi portai il piatto nell’altra stanza sistemandomi sulla mia sedia preferita, quella con l’imbottitura a strisce arancione, e ad ogni boccone pensavo – mmm, che buona, la migliore di sempre, gnam gnam – ma ad ogni boccone: assenza, fame, caduta a spirale, vuoti. Questa torta che mia madre aveva fatto solo per me, sua figlia; figlia amata al punto che a volte potevo vederla stringere i pugni per trattenersi dallo straripare quando tornavo a casa da scuola, e quando mi abbracciava salutandomi potevo percepire quanto fosse inadeguato l’abbraccio rispetto a tutto quello che voleva darmi.
Mangiai tutta la fetta, desiderando spasmodicamente di mostrarmi che mi sbagliavo.
Ma il giorno fuori andava rabbuiandosi, e mentre finivo quel primo assaggio, mentre quella prima impressione svaniva, mi sentii dentro un impercettibile mutamento, una reazione inaspettata. Come se un sensore, fino ad allora sepolto in profondità dentro di me, allargasse il suo raggio d’azione e cominciasse a scrutare tutt’attorno, allertando la mia bocca a qualcosa di nuovo. Perché la bontà degli ingredienti – la cioccolata sopraffina, i limoni freschissimi – sembrava una coltre sopra qualcosa di più grande e di più oscuro, e il sapore di quello che c’era sotto cominciava ad affiorare nel boccone. Certo, riuscivo ad assaporare la cioccolata, ma a folate e di traccia in traccia, in un dispiegarsi o in un aprirsi, sembrava che la mia bocca si stesse anche riempiendo con il sapore della piccolezza, la sensazione del rattrappirsi, dell’inquietudine, assaporando una distanza che non so come sapevo collegata a mia madre, come se sentissi un sapore pregno dei suoi pensieri, una spirale, come se quasi potessi provare il sapore della tensione della sua mascella che le aveva provocato il mal di testa, il che significava che aveva dovuto prendere un certo numero di aspirine, una riga punteggiata di aspirine messe in fila sul comodino, come puntini di sospensione dopo la sua frase: vado a buttarmi sul letto per un po’... Non che il sapore fosse cattivo, non proprio, ma c’era una specie di mancanza di completezza nei diversi gusti che gli dava un’impressione di vuoto, proprio come se il limone e la cioccolata racchiudessero una cavità. Le abili mani di mia madre avevano fatto il dolce, e la sua mente era stata in grado di equilibrare gli ingredienti, ma lei lì dentro non c’era. Mi fece talmente tanta paura che estrassi un coltello da un cassetto e tagliai una grossa fetta, rovinando la forma circolare, perché dovevo ricontrollare immediatamente, e la misi su un piatto con i fiori rosa e presi un tovagliolo dal cassetto dei tovaglioli. Il cuore mi batteva forte. Eddie Oakley venne ridotto ai minimi termini. Speravo di essermi immaginata tutto – forse era un limone andato a male? o dello zucchero vecchio? – anche se sapevo bene, già nel momento in cui lo pensavo, che il sapore che avevo sentito non aveva niente a che fare con gli ingredienti – e accesi la luce e mi portai il piatto nell’altra stanza sistemandomi sulla mia sedia preferita, quella con l’imbottitura a strisce arancione, e ad ogni boccone pensavo – mmm, che buona, la migliore di sempre, gnam gnam – ma ad ogni boccone: assenza, fame, caduta a spirale, vuoti. Questa torta che mia madre aveva fatto solo per me, sua figlia; figlia amata al punto che a volte potevo vederla stringere i pugni per trattenersi dallo straripare quando tornavo a casa da scuola, e quando mi abbracciava salutandomi potevo percepire quanto fosse inadeguato l’abbraccio rispetto a tutto quello che voleva darmi.
Mangiai tutta la fetta, desiderando spasmodicamente di mostrarmi che mi sbagliavo.
Che ve ne pare? Non trovate che l'idea alla base del romanzo sia semplicemente geniale? Personalmente mi aspetto un libro delicato e molto introspettivo, spero di non rimanere delusa.
Voi lo avete già letto o avete in programma di farlo? Fatemi sapere! Buona giornata e alla prossima!